Della resilienza, ovvero inizia a nuotare
“Hanno cercato di seppellirmi, ma non sapevano che io sono un seme.”
Proverbio Messicano
“Hanno cercato di seppellirmi, ma non sapevano che io sono un seme.”
Proverbio Messicano
“Immaginiamo di prendere un piccolissimo bicchiere d’acqua e di metterci dentro un cucchiaino di sale: a causa delle ridotte dimensioni del contenitore, il cucchiaino di sale avrà un grande effetto sull’acqua.
Tuttavia se passiamo a una distesa d’acqua più grande, per esempio un lago, e vi poniamo dentro il cucchiaino di sale, questo non avrà un effetto della stessa intensità, a causa della grandezza e della vastità del recipiente che lo contiene. Anche se il sale rimane lo stesso, la spaziosità del contenitore cambia ogni cosa.
Passiamo gran parte della nostra vita a cercare un senso di sicurezza o protezione, tentando di cambiare la quantità di sale che ci tocca in sorte. Ironicamente, il sale è proprio la cosa su cui non possiamo agire, poiché la vita cambia e ci offre ripetuti alti e bassi.
Il nostro vero lavoro è creare un contenitore così immenso che ogni aggiunta di sale, per quanto gigantesca, può entrarvi senza influire sulla sua capacità di riceverlo. ”
Così racconta la resilienza Sharon Salzberg, scrittrice e insegnante di meditazione buddista, ne L’arte rivoluzionaria della gioia. Ho riportato le sue parole perchè mi sembra rendano benissimo l’idea.
Essere resiliente significa mantenere un atteggiamento che sappia adattarsi alla realtà ogni momento in maniera consapevole. Significa essere piantati nel momento presente, e partire da lì. Dirsi: bene, eccomi qui, in ‘sta situazione di cacca. Non perdersi d’animo e domandarsi: cosa posso fare per uscirne, o anche solo per sopravvivere finché passa?
Senza giudizio, senza guardarsi indietro, senza colpe a questo e a quello ne’ recriminazioni, che non serve a niente. Se si è fino al collo in quella materia organica, esimersi dalle responsabilità è un bell’esercizio accademico, ma assolutamente sterile. Serve focalizzarsi sulle risorse interne ed esterne.
Se si finisce a terra, pazienza: bisogna però fare come il bambù, che si piega con il vento fino a terra, ma poi torna su. Non serve essere forti, serve essere elastici. Sapersi piegare e assecondare le forze della natura. Resilienti, appunto.
Se la vita ci scaraventa nell’acqua, è inutile che iniziamo a lamentarci come non sia giusto, che è colpa delle congiunzioni astrali, che l’acqua non ci è mai piaciuta, non è la nostra, che è fredda, e che nella fattispecie quella non è neanche così pulita, anzi a volerla dire tutta puzza. Perché intanto andiamo a fondo. Avendo ragione, senza colpe, ma affoghiamo. Facciamo prima a farci crescere le branchie, e a iniziare a nuotare, puzza o non puzza.
E non necessariamente dobbiamo aspettare che arrivi lo tsunami, per affinare quelle competenze. Dovremmo, anzi, allenarci nella vita di tutti i giorni, soprattutto quando va tutto bene, sapendo che quella materia organica là prima o dopo arriva: impariamo a lamentarci di meno, a non perderci nei giudizi sterili di attribuzione di colpe, e a nuotare subito con energia, sempre e di più. Cercando sempre il lato positivo, e rendendo grazie. Ogni giorno. Solo così aumentiamo la capienza dell’invaso d’acqua dove la vita, bastarda, svuota il sale -per non dire che altro-.
Nessun mare è infinito, nel bene e nel male. Resilienza è non affogare, saper nuotare, sia nelle acque calme che in quelle agitate, senza mai smettere la bracciata, ma dosandola costante alla corrente. E nei momenti più difficili, accontentarsi anche solo di galleggiare e confortarsi sapendo, come ogni marinaio sa, che prima o dopo si tocca terra ferma e si arriva ad un approdo. Non necessariamente quello che si desiderava, sicuramente non lo stesso da cui si è partiti.
Perché nessuna burrasca dura per sempre, e alle bufere si può sopravvivere, se solo si è imparato a nuotare e si hanno le branchie.